lunedì 16 aprile 2012

C'era una volta il vecchio west

Cavalli pistole e fucili, con cavalli, cappelli, foderi e cinture. Stelle di latta, buchi in panza, regolamenti di conti, senza giustizia. Cappio al collo, il cavallo scappa imbizarrito. Rimane appeso.

Dolce respiro


dolce folle sospiro
seguire la tua luce
camminare sui tuoi passi
dolce profumo sensuale
che illumini la via
la luce da seguire
dolce follia di un momento
una segreta crepa nel cuore
una spina nel tuo sospiro
Sergio
(importato da Splinder)

Il Genio

(importato da Splinder)


Il genio prese un foglio bianco e una penna, tracciò una linea sul foglio bianco, restò lì a guardare la linea tracciata con i gomiti appoggiati al tavoli e le dita incrociate sotto il mento.
Girò il foglio e con la penna cominciò a segnare ogni tipo di segni matematici, appunti, poi si fermò, sul viso un'espressione di trionfo, stava rileggendo la sua formula, continuò a scrivere.
Ad alta voce i suoi pensieri correvano nella stanza vuota: "eh sì, non può essere che così", "E' lampante, perché non ci ha mai pensato nessuno", "certo, è così semplice".
Si ferma, il suo viso prende un'espressione esterrefatta: "potrebbe cambiare il modo di vedere il mondo, sarebbe la scoperta del secolo, nulla sarebbe più uguale, sarebbero risolti tutti i problemi dell'umanità."
Rilesse ancora la sua formula, girò il foglio a guardare la linea.
Fece un'espressione corrucciata... "naaaaaaaa, il mondo non è ancora pronto", piegò in due il foglio e lo mise dentro il cassetto della scrivania, in mezzo a tanti altri fogli piegati.


Sergio

anni fa

(importato da Splinder)




Vorrei passare le mie dita
tra i tuoi capelli
sentire il tuo respiro
con il mio insieme
vorrei vederti una volta
ancora
sentire il mio cuore vicino
al tuo




Sergio

trema



La terra trema
le case cadono
cuori si fermano
lacrime sul viso
un bambino piange
vite sconvolte
pochi secondi
il volto è segnato


Sergio

(importato da Splinder)

Uno di Uno (2)


Uno di Uno (seguito 2)





Sentii altro, un rumore, qualcosa di familiare, la porta dell'ingresso che si apriva, non ne ero intimorito, sapevo che chi entrava lo conoscevo, sapevo ogni cosa, sarebbe arrivata qui in pochi secondi.
L'unica cosa che si sentiva era il suo passo, leggero malgrado gli anfibi, verniciati di rosso con le stringhe slacciate, che spuntavano, uno dopo l'altro ad ogni passo, da sotto l'ampia gonna lunga in jeans tutta sfrangiata. Comparve da dietro l'angolo per entrare nella stanza, avvicinandosi al tavolino estrasse dalla sua borsa a tracolla in filo un pacchetto di foto, lasciandole con disinteresse sul divano dov'ero steso, si passò una mano tra i capelli corti e arruffati sorridendomi, non disse una parola, non serviva. Sapevo sicuramente il suo nome, ma non aveva importanza ora, tutto era come doveva essere, “Sì va tutto bene, è sempre stato così, lì davanti a te c'è la tua strada”.
Le foto erano scivolate a terra ma non ci curammo di raccoglierle, si sedette per terra ai miei piedi, mi guardava negli occhi, la guardavo…. era sempre così dolce. Non lo so. Pensavo, sì, a come risolvere il problema che attanagliava il mio PC da qualche giorno, ogni volta che lo accendevo mi dava uno strano messaggio, sempre diverso, era proprio un messaggio del tipo "oggi non ho voglia di stare connesso", oppure del genere, "non ho voglia di far niente, puoi spegnermi?".
Ero preoccupato, non avevo mai visto un computer comportarsi in questo modo, non hanno intelligenza, devono solo compiere ciò per cui sono stati costruiti. Pensavo ad un virus, ma non ne avevo trovati, avevo cercato anche accessi non autorizati, ma non c'era niente. Ero sicuro si trattasse di qualcosa non facilmente rintracciabile… nascosto in qualche recondito angolo di qualche chip, perché sicuramente qualcosa era, solo che non capivo dove si potesse annidare.
Lei aveva acceso la televisione, a me non interessava granché era difficile che io guardassi la televisione, c'era, ma stava lì spesso come un qualsiasi soprammobile. Mentre per lei era la prima cosa d'accendere appena arrivava. Era come qualcosa di più forte, non controllabile, una forza misteriosa che l'accendeva, sia che ci fosse, o anche se non era direttamente presente. C'era. Sicuramente davano qualcuno dei soliti stupidi telefilms senza né capo né coda che guardava di solito. Irriducibile.
Fuori dalla finestra il vento, la fine dell'inverno, minacciosi nuvoloni che correvano come forsennati ad ammassarsi sempre più sopra le nostre teste, le nostre case, sopra le persone che camminavano come automi, la fuori, promettevano solo pioggia e bufera, gli alberi del viale erano agitati, si muovevano come per uno sfrenato ballo, come uomini con chiome stile anni '70, con le braccia alzate, foglie ormai secche venivano sbattute in giro, sollevate dalle folate ripetitive di una promessa d'uragano.
Dentro la televisione accesa, uno stupido programma…un computer che non aveva voglia di elaborare qualche algoritmo, freddo, lei dormiva, sotto la coperta, lì adagiata sul divano. Era sensuale nel suo modo di addormentarsi davanti al televisore, le labbra appena socchiuse, ciocche di capelli che le ricadevano sul viso, che da sveglia le avrebbe sicuramente spostate, orano erano lì che le davano un'aria così particolare.
Visto che il mio PC non voleva saperne di fare il suo dovere mi alzai per guardarla dormire, era sempre lei. Per fortuna. Sapevo che lei era per me una certezza, era bello guardarla, era bello quando era lì. Non sapevo il perché, ma sentivo che era così, la vedevo così tranquilla, trasognata, nel suo dolce sonno, dopo la giornata che sapevo doveva essere stata faticosa. Lei sembrava normale, doveva esserlo. Ero io che non quadravo, che dovevo essere strano, che non mi ritrovavo in quel posto, che non mi ritrovavo nel mio corpo, mi pareva di essere spostato dal mio essere, spostato dalla mia fisicità, dalla mia persona.
Che avessi lo stesso virus del mio PC, mi sembrava di essere sconnesso, ma soprattuto non avevo voglia di essere, trovavo una difficoltà enorme a ritrovarmi, anzi, mi pareva proprio di essere in una situazione di non essere, non so se era il modo di dire giusto, ma certamente era quella la sensazione che provavo in quel momento.
(continua)

Uno di Uno






Il mondo che conoscevo sembrava tutt'a un tratto non essere quello che avevo conosciuto, mi sentii davvero abbandonato. Niente era come lo ricordavo, dovevo essermi svegliato con il piede storto, non mi pareva di essermi mai sentito così strano. Avevo gli occhiali da sole per proteggermi dallo sguardo inquisitore della gente, non sopportavo la luce diretta e non volevo vedere direttamente gli occhi di chi incrociavo per strada, anzi cercavo d'evitarli. Il bavero della giacca tirato su, per nascondere il più possibile il mio profilo alla gente, pensavo fosse la parte più debole della mia persona. Guardavo i miei piedi che si muovevano spuntando da sotto l'orizzonte formato dal mio ventre, che non era così grosso come poteva far pensare, ma muovendo alternativamente i piedi ne sbucavano solo le punte.
Era un problema se non potevo sopportare chi mi stava attorno, vicino, a fianco? Non potevo sopportare gli odori di chi incontravo sulla mia strada, eppure non sopportavo nemmeno di andare in giro in auto per una città caotica come questa. A parte che non mi ricordavo nemmeno se avevo un'auto, o se sapevo guidare. Mi ricordavo solo che facevo tante camminate da casa a lavoro, da lavoro al bar, o alla tavola calda, dalla tavola calda all'ufficio per poi tornane a casa.
La strana impressione era che sprecavo un sacco di tempo in inezie, non tornava mai come facessi a far arrivare sera senza aver combinato ancora nulla di concreto nell'arco della giornata. La sensazione di aver dimenticato qualcosa…ma cosa?
Così è stato che avevo cominciato a guardare chi mi stava attorno. A vedere stupide signore coi loro stupidi discorsi sulle loro malattie, su quelle degli altri, discriminando per ore sulle loro magagne. Persone, che da sole parlano, accompagnate dal loro inseparabile cellulare in mezzo al marciapiede trafficato, pieno di persone che parlano con la loro scatolina colorata che emette strani suoni, strani bip. Persone con gli occhi sbarrati che guardano il nulla, senza mai sapere effettivamente dove sono, camminando come automi, come me.
Ragazzi, vestiti tutti uguali, con anonime divise di una strana bandiera, che ascoltano strana musica, e fanno strani gesti, spesso violenti, sempre aggressivi, sempre in prima linea, sempre pronti a eliminare chi non la pensa come loro e chi è diverso da loro.
Ma io, non ero diverso da loro, erano loro diversi da me, era questa la loro diversità non era il loro distinguersi in quanto tali, ma il loro uniformarsi alla presunta diversità Forse io ero il diverso, quello che la pensava in modo diverso, oppure anch'io ero uguale a loro perché credevo di pensare diversamente.
Vagavo con gli occhi sbarrati per la città cercando quell'unico luogo dove potevo essere, stare al sicuro, stare protetto e capito, Sbattere la testa contro ogni muro, per poi capire che forse quell'unico posto era dentro me.
Era il momento di ritornare a casa. Ma dov'era casa. Era un posto così ben localizzato, che non avevo idea di dove fosse, pareva un'idea astratta, che non riguardava in alcun modo me, quindi troppo distante, non interessante. Stavo facendo uno sforzo per capire, ero sull'orlo di un baratro, un livello se pur basso che era di panico.
Dove andrò a dormire, mangiare, da dove arrivavo, perché mi trovavo lì, e lì dov'ero. Una città, mille, un milione di voci, miliardi di rumori, una voce interiore mi diceva “Sì va tutto bene è sempre stato così lì davanti a te c'è la tua strada“, la sicurezza. E lì una luce mi diceva che ero davvero sulla strada giusta. Arrivando così senza sapere come davanti una porta, che potevo aprire con una delle chiavi che avevo in tasca, che automaticamente trovai, scoprendo che era proprio quella giusta, quella che apriva la porta.
E dietro quella porta un appartamento che non sapevo di avere, ma ogni movimento che facevo automaticamente mi informava che era il mio, aprivo un cassetto per prendere una rivista che avevo messo lì la sera prima, sapevo esattamente dov'era, anche se non sapevo perché. Premevo l'interuttore sapendo esattamente che accendeva la luce sul tavolino dall'altra parte della stanza, accanto al divano. Sapevo esattamente dove era la cucina, cosa c'era dentro i cassetti, sapevo che nel frigo c'era una birra che coincideva con i miei desideri del momento, conoscevo il suo gusto, e sapevo che avevo voglia di berla, e trovai un bicchiere proprio lì dove sapevo di trovarlo.
Sorseggiando la birra mi sedetti sul divano, per sfogliare la rivista, soffermandomi su questo o quell'articolo. Sentivo una voce dentro me che mi ripeteva “Sì va tutto bene, è sempre stato così, lì davanti a te c'è la tua strada”, dandomi la giusta tranquillità che ora mi permetteva di rilassarmi e concentrarmi nella lettura.

(continua)
(importato da Splinder)


Stavo cercando una cosa, e mi è venuto in mente che qui in primavera doveva arrivare la pandemia più pericolosa per l'uomo, l'epidemia che doveva sconvolgere l'umanità, la famigerata aviaria.
Che fine ha fatto, una bolla di sapone? Fino ad un mese fa ci rintronavano a suon di volatili, gatti, cani morti per l'aviaria. Anitre e cigni che morivano negli stagni italiani... poi il nulla.
Ma dov'è finita l'aviaria, non ce n'è più traccia, mi pare molto strana la cosa.
Lo strano è che passata l'ondata influenzale stagionale, e la vendita degli antinfluenzali è andata a buon fine, le notizie sull'aviaria hanno perso spessore, non interessano più a nessuno.
Gli unici a perderci sono stati i polli, sembrerebbe. C'è stato un incredibile falcidiazione di polli a causa di un probabile contagio che poi non c'è stato, qualcuno mi dirà che è appunto perché a scopo precauzionale sono stati eliminati i polli, non c'è stata l'epidemia tanto conclamata, ma ci si deve credere.
C'è chi dice che la carne di pollo non viene più consumata, che ci sono state perdite enormi, in termini economici... però conosco tanta gente che il pollo l'ha continuato a mangiare, anzi ho anche notato che il prezzo della carne di pollo è sempre stata alta, anzi hanno alzato il prezzo, questo perché non si vendeva? Se non si vendeva forse dovevano abbassarlo... o no.
Se qualcuno mi dice che fine ha fatto l'aviaria ringrazio, mi piacerebbe davvero saperlo.

Tursha - Naufragio


Fin dalla mattina avevano visto che non sarebbe stato un giorno fausto. E quella mattina infatti, prima furono costretti a inseguire una triremi romana che li allontanò dalla nave alla quale stavano prestando scorta. Questa trasportava la statua della dea Astarte, dono dei Cartageni. Allontanadoli troppo, loro che speravano di raggiungerli in fretta e dar battaglia, distruggerli, come meritavano per gli insulti che avevano proferito contro la loro gente, per tornare in breve tempo alla scorta. Ma dovevano capirlo che era solo una manovra diversiva, per tenerli distanti. Un'altra barca poteva agire indisturbata depredando gli ori, la statua, e il carico prezioso della nave che dovevano scortare. Avendo tutto il tempo di affondarla.
Infatti quando videro la colonna di fumo alzarsi nel cielo, alle loro spalle, capirono immediatamente lo sbaglio commesso. Erano caduti nella trappola come dei principianti, lasciando sguarnito il loro lato più debole, la nave che scortavano. Che effettivamente, quando, compiuta la virata, arrivarono sul posto del rogo, ormai non c'era più niente e nessuno da salvare. Ma nemmeno nessuno da inseguire.
Un'unica cosa sapevano, i responsabili non erano altro che i loro più acerrimi nemici, i focei di Alalia, avrebbero pagato per questo nuovo affronto. Avrebbero venduta a caro prezzo la loro pelle all'ingresso dell'Ade. Non sarebbe stato risparmiato nessun loro discendente, nessuna pietra delle loro case sarebbe rimasta in piedi, e nemmeno l'erba sarebbe più cresciuta in quel luogo. Si sarebbe certo rifiutata di crescere in un luogo così immondo. Sarebbe stata fatta giustizia.
Ora c'era solo una cosa da fare, lanciarsi all'inseguimento della nave nemica, e far pagare, con la loro vita, lo sgarro fatto. Ce l’avrebbero fatta, Poseidon li avrebbe aiutati a raggiungere quella barca, troppo veloce per loro, ma sicuramente già imbevuti di gloria, che certamente non avrebbero pensato di ritrovarsi alle spalle i più valorosi guerrieri Tursha dell'intero Mediterraneo. Discendenti diretti di famosi pirati che già avevano scorrazzato in lungo e in largo nel mare Egeo, quando loro, i focei, non avevano nemmeno il coraggio di avventurarsi nel loro mare.
La storia insegnava che i focei erano troppo vigliacchi per combattere una battaglia a viso aperto. Già quando scapparono dalle loro terre senza combattere. Lasciando le loro case all'invasore dell'est, costrinsero alla fuga il resto dei popoli loro alleati, che se non avessero seguito il loro esempio, sarebbero rimasti uccisi, o fatti schiavi.
Ma questi erano diventati malgrado tutto pirati a occidente, assalendo navi e porti Shardana, Cartagegi e quelli Tursha. Sempre agendo con l'inganno della debole strategia fatta di tradimenti e sotterfugi, che spesso portava anche i suoi frutti, ma certo era che i focei erano tra i più odiati mercanti della zona. Erano quelli che vendevano al prezzo più alto, ed erano quelli che raziavano un intero villaggio anche se non erano in guerra con questo. E quando gli si poteva far pagare qualcosa lo si faceva con la loro stessa moneta.
Come ora, dopo il loro arrembaggio alla nave Tursha, la scorta si precipitò all'inseguimento. A vele spiegate e rematori che tenevano un'andatura molto sostenuta, solo per riuscire a ingaggiar battaglia nel minor tempo possibile, li avrebbero raggiunti, avrebbero fatto il possibile. Se fossero tornati vincitori avrebbero fatto tutti un pellegrinaggio a Poseidonia all'altare di Poseidon per rendergli gli omaggi della vittoria.
Procedevano spediti, ma le vele della nave che inseguivano non si vedevano. Sapevano che aveva preso sicuramente quella rotta, ma doveva essere una triara, e per loro era troppo veloce. L'avrebbero raggiunta solo quando si sarebbero creduti ormai fuori pericolo. Erano loro che non dovevano cedere, erano certi che prima di sera sarebbero stati loro addosso. Il problema era solo quello di raggiungerli, perché poi, la battaglia non la temeva nessuno.
Ma un altro evento forse veniva in loro aiuto, si era alzato un vento di tempesta, proveniente da ponente. Si manteneva soleggiato, ma in lontananza si vedevano già le prime nubi salire. Erano grossi cumuli che si spostavano proprio verso di loro. Certamente avrebbero prima incontrato la nave nemica, questo era già un vantaggio.
Fu poco dopo il mezzogiorno che si avvistarono le vele dell'imbarcazione nemica, erano spiegate, ma nessun rematore era al lavoro. Per cui si credevano già sicuri, e non avevano nessuno all'avvistamento. Avrebbero potuto avvicinarsi molto prima di essere scorti, grazie anche al mare che si era notevolmente ingrossato. La fortuna giocava ora dalla parte dei Tursha, che alla vista della nave si infervorarono ulteriormente, sentendo il predatore divenire preda. Cominciarono canti di incoraggiamento a resistere, canti di guerra che animavano ancor più di forza i già possenti guerrieri.
Il mare spumeggiava, le onde battevano contro il legno, schizzando e rinfrescando i corpi sudati, rigenerandoli dal calore. Le voci scandivano il ritmo e il tamburo teneva il tempo, il loro comandante era osannato nei canti. Già lo ringraziavano di portarli alla gloriosa battaglia, per vendicare gli ori perduti. Le schiene si muovevano a ritmo sincronizzate tra loro. Un movimento muscolare perfetto che muoveva e agitava l'intera imbarcazione. Le nuvole ormai sopraggiungevano a coprire il sole ormai erano sicuri anche di essere stati avvistati dall'altra barca, ma ciò non importava, visto che non le erano più tanto distanti. Anzi si vedeva che ora anche gli altri remavano, ma a un ritmo più blando, non certo come loro, erano sempre più vicini.
Eppure la nave nemica era una triara, aveva due file di remi per parte più della loro, ma questo ormai non le sarebbe bastato, loro avevano una copertura di vele maggiore, ma ancora per poco, perché ormai il vento era troppo forte. Avrebbero perso tutto se le avessero tenute ancora spiegate. I loro nemici le avevano tutte serrate, e avanzavano solo coi remi, col mare mosso però non riuscivano a tenere un buon ritmo, anche perché coordinare cinque file di remi era difficile con tutto il peso del carico, tanto più con le onde. Spesso le ultime due in alto non toccavano nemmeno l'acqua. Allora lo sforzo del resto diventava maggiore, in quanto dovevano sopportare anche il peso della parte mancante. Voleva dire che perdevano molto tempo a far andare dritta la nave, sopratutto quando arrivavano forti ondate che la spostavano dalla sua rotta.
L'inbarcazione Tursha chiaramente non era da meno, anche questa aveva i suoi problemi, ma già il fatto di aver meno remi e niente carico, poteva aver problemi nel tener dentro l'ultima fila. Ovvero dall'altro lato veniva impressa solo la forza di una fila in più, non di due o tre a seconda delle ondate, e allora rimettere in rotta era notevolmente più facile. Ma ora stavano entrando nella tempesta, non sapevano come sarebbe andata a finire.
Il sole stava terminando la sua corsa giornaliera e a est, nel cielo ancora azzurro, comparivano le prime stelle. C'era parecchio vento quella sera, e si stava preparando una tempesta di quelle molto forti, era tutto il giorno che malgrado il sole battente remavano all'inseguimento della triara focea, ormai Icore, Tonesh e Takesh lo sapevano, i focei erano molto forti, ma quando pensavano di essersi allontanati abbastanza era il momento in cui diventavano vulnerabili.
Ormai le stelle stavano per essere completamente coperte dalle sempre più incontenibili nubi, presto avrebbero seguito la rotta a naso, verso Alalia a Cirso. I Tursha conoscevano ogni onda del mare dei Shardana. Dovevano raggiungerli per forza, era per recuperare il carico per il tempio di Kisra. La mossa dei focei era stata troppo vigliacca.
Il mare era sempre più alto, anzi alcune ondate entravano direttamente in barca, si vedeva ancora la sagoma della nave a ponente. Avevano rallentato vistosamente, forse avevano dei problemi con la tenuta della nave, che probabilmente aveva il rostro storto. Certamente storto nello speronamento della nave mercantile, speravano fosse vero. Sarebbe stato proprio un colpo di fortuna, magari la loro situazione si fosse aggravata ulteriormente, non sarebbero loro sfuggiti a maggior ragione, c'era solo da sperare di esser loro addosso prima della tempesta.
Icore, era il più giovane e fremeva nell'attesa di ingaggiar battaglia, all'arrembaggio. L'orizzonte era rischiarato dai lampi del temporale e più vicini i loro perpetui nemici. Già i loro avi inseguivano i focei su un altro mare a oriente, oltre Regius, dove c'erano tanti altri antagonisti, come i punici o i cretesi e i pelasgi delle piccole isole egee, ma i peggiori di tutti erano i focei.
Il mare era sempre più grosso. Ora le onde entravano spesso nella nave ed erano già all'opera gli addetti allo svuotamento, davanti ai tursha i focei erano nella loro stessa condizione, forse peggio, glielo auguravano. Stavano già da tempo gettando a mare il bottino, il tesoro Tursha. Erano quasi loro addosso.
Ma ecco improvvisamente la barca focea si impennò su un onda e finì sul fianco. Allora fu subito dato l'ordine di cambiare la rotta, e i rematori di destra alzarono i remi, ma di colpo i remi sulla sinistra rimasero in acqua spezzati, contro il corpo duro del vascello nemico. Lo scafo che stava affondando era appena sotto il pelo dell'acqua e veniva loro in contro. Non si poteva più evitarlo. Era destino allora che quella nave di infidi focei li condannasse tutti a morte sicura. Avevano cozzato violentemente contro quello scafo, portati dalle onde, più volte. Nella loro stiva c'era già una falla che faceva entrare anche troppa acqua, avrebbe provocato l'inevitabile affondamento della nave. Sarebbero stati inghiottiti in questo mare, ormai così ingrato, sulle cui sponde si affacciava la loro seconda patria.
Tutti, capi e guerrieri si buttavano in mare, sulle botti per sperare di render cara la pelle. E chi tuffandosi trovava un foceo lo uccideva all'istante, se questo aveva la malaugurata sfortuna di non essere già annegato, ci pensavano i guerrieri Tursha a annegarlo nel suo stesso sangue.
Chi si tuffava a spada sguainata sul nemico per finirlo comunque, chi moriva impigliato nelle sartie che vagavano come reti sul pelo dell'acqua, due imbarcazioni ormai relitti adatte solo per i pesci in fondo al mare. In poco tempo delle navi non restavano che pezzi, botti, remi e corpi vaganti, più morti che vivi, nel mare prospiciente alla costa Shardana.
Tonesh sperava di essere vicino alla costa di amici, sperava di essere abbastanza a sud da raggiungere qualche villaggio di commercio.
Sia Icore che Takesh erano spariti ai suoi occhi, non sapeva che fine avessero fatto. L'unica cosa certa era che doveva nuotare e portare in salvo almeno la pelle, doveva distinguere sempre il ponente nell'uscire dalle onde, per non perderlo quando veniva buttato di sotto. Ormai non era più il caso di combattere.
La tempesta infuriava e le onde erano alte Tonesh cercava di non soccombere alle ire degli dei, le onde lo urtavano, lo spingevano, lo soffocavano, sommergendolo alle volte inaspettatamente. Era sballottato a dritta o a manca senza poter fare niente. Era stanco, avvilito, gli mancavano le forze sempre più, non riusciva più a concentrarsi, gli mancavano le forze, non riusciva più a distinguere la direzione giusta, ormai capiva di averla persa, eppure continuava a nuotare. Si sentiva morire. Non ce l'avrebbe mai fatta a vincere.